La Cassazione ha affermato che, in tema di patteggiamento, rientra nel potere negoziale delle parti anche l’esclusione delle pene accessorie obbligatorie
L’accordo sull’applicazione delle pene (anche accessoria)
Nel caso di specie, il Gip presso il Tribunale di Mantova aveva applicato, ai sensi dell’art. 444 c.p.p., all’imputato la pena da quest’ultimo concordata con il pubblico ministero per i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale, causazione dolosa del fallimento, bancarotta semplice patrimoniale e ricorso abusivo al credito.
Avverso tale decisione, il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Brescia aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione, contestando, in particolare, il fatto che il Gip avesse illegittimamente ritenuto di non applicare all’imputato le pene accessorie previste in materia fallimentare, nonostante l’irrogazione delle stesse sia obbligatoria.
Ammissibilità del patteggiamento cd “allargato”
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 21177/2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto in quanto proposto fuori dai casi previsti dall’art. 448, comma 2-bis, c.p.p.
Sul punto, la Suprema Corte ha anzitutto ripercorso il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, soffermandosi in particolare sull’esame delle novità introdotte dall’art. 25, comma 1, lett. a), n. 1) d.lgs. n. 150/2022, che, modificando il primo comma dell’art. 444 c.p.p., ha previsto la facoltà per l’imputato e il p.m. di chiedere al giudice la non applicazione delle pene accessorie.
Ciò posto, la Corte ha evidenziato che, dalla ratio della norma, nonché da quanto indicato nella relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo, la finalità perseguita dalla novella è sicuramente quella d’incentivare l’accesso al rito alternativo, consentendo alle parti di far rientrare nell’accordo ex art. 444 c.p.p. anche le pene accessorie, dando così luogo alla “piena negoziabilità del trattamento sanzionatorio penale nel suo complesso considerato”.
La Corte precisa, tuttavia, che la suddetta norma non impone alle parti di estendere l’accordo anche alle pene accessorie, ma li attribuisce la relativa facoltà, con la conseguenza che, se le parti nulla hanno previsto al riguardo, il giudice è tenuto ad applicare le pene accessorie obbligatorie.
Sulla base del suddetto quadro normativo, ed in particolate delle novità normative introdotte all’art. 444 c.p.p., appare necessario stabilire se l’ampliamente del potere negoziale delle parti riguarda tutte le pene accessorie, ovvero solo quelle la cui applicazione è rimessa alla decisione del giudice (e quindi solo quelle non obbligatorie per legge).
La non immediata intelligibilità della questione sopra posta, viene dissolta, ha precisato la Corte, dalla lettura del primo comma, secondo periodo dell’art. 444 c.p.p., ove la facoltà di negoziare le pene accessorie con effetto vincolante per il giudice è espressamente limitata alle ipotesi di confisca facoltativa.
Ne consegue, ha rilevato il Giudice di legittimità, che la “mancata espressa limitazione in senso analogo dell’accordo sulle pene accessorie rivela l’intenzione del legislatore di consentire alle parti di accordarsi di escludere anche quelle che devono essere altrimenti disposte obbligatoriamente”.
Sulla scorta di quanto sopra riferito, la Suprema Corte ha concluso il proprio esame riferendo che, nel caso di specie, l’imputato ed il p.m. avevano espressamente chiesto al giudice di non dare applicazione alle pene accessorie aventi natura obbligatoria in materia fallimentare, avvalendosi in questo senso della facoltà loro attribuita dall’art. 444 c.p.p., con la conseguenza che il ricorso proposto, per quanto qui rileva, non è stato ritenuto ammissibile.
Le SS.UU hanno ricordato che la misura degli interessi, decorrenti dopo la proposizione della domanda giudiziale, corrisponde al saggio previsto dall’art. 1284, comma 1, c.c.
Legittimità degli interessi legali nella responsabilità civile
In tema di responsabilità civile, il Giudice di primo grado, era stato chiamato a pronunciarsi in ordine ad un’opposizione a precetto nell’ambito del quale l’opposta aveva rilevato che, per determinare l'importo dovuto dal debitore a titolo d'interessi, occorreva avere riguardo al parametro di cui all'art. 1284, 4 comma, c.c., che individua la decorrenza della debenza degli stessi dalla proposizione della domanda giudiziale, mentre, per la quantificazione degli interessi, occorreva fare riferimento al saggio previsto dalla legislazione speciale per i ritardi nei pagamento sulle transazioni commerciali, trattandosi di credito di lavoro.
Rispetto alle suddette contestazioni, il Tribunale adito aveva disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione, ai fini della risoluzione della seguente questione di diritto “se l’art. 429, comma 3, c.p.c. - nella parte in cui stabilisce che alla condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro debbano aggiungersi «gli interessi nella misura legale», oltre che il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo credito - costituisca norma speciale rispetto all'art. 1284, comma 4, c.c., da ritenersi, dunque, inapplicabile in caso di crediti di lavoro, oppure se, al contrario, il citato art. 429 c.p.c. contenga un rinvio all'art. 1284 c.c. nella sua interezza, tale da includere anche il quarto comma e così, "gli interessi legali maggiorati" (o "super-interessi") a far data dalla domanda giudiziale».
Il giudice rimettente aveva inoltre posto la questione pregiudiziale avente ad oggetto “la legittimità dell'estensione del tasso d'interesse stabilito al quarto comma dell'art. 1284 c.c. anche alle obbligazioni extracontrattuali, avuto riguardo all’indennità risarcitoria per licenziamento illegittimo”.
Interessi dovuti nella misura legale e dal momento della proposizione della domanda
In ordine alla questione sottoposta all’attenzione delle Sezioni Unite, sopra rappresentata, la Corte, con sentenza n. 12974/2024, ha dichiarato l’inammissibilità del rinvio pregiudiziale proposto.
Nella specie, la Corte ha ripercorso i precedenti formatesi in seno alla stessa giurisprudenza di legittimità, secondo cui “ove il giudice disponga il pagamento degli «interessi legali» senza alcuna specificazione, deve intendersi che la misura degli interessi, decorrenti dopo la proposizione della domanda giudiziale, corrisponde al saggio previsto dall’art. 1284, comma 1, cod. civ. se manca nel titolo esecutivo giudiziale, anche sulla base di quanto risultante dalla sola motivazione, lo specifico accertamento della spettanza degli interessi, per il periodo successivo alla proposizione della domanda, secondo il saggio previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”.
In ragione del sopracitato principio, pronunciato dalle Sezioni Unite con sentenza n. 12449/2024, il Giudice di legittimità ha affermato che “Alla luce di tale principio di diritto, che interpreta la portata del titolo esecutivo giudiziale, là dove, come nel caso di specie, si limiti a disporre il pagamento degli interessi senza alcuna specificazione, nel senso della spettanza degli interessi legali nella misura di cui al primo comma dell’art. 1284, la risoluzione della questione di diritto posta non ha rilievo ai fini della definizione del giudizio”, con la conseguenza che, come detto, la Corte, dopo aver chiarito la disciplina applicabile nel caso di specie, ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso proposto.
Solo una condotta posta in essere mentre il rapporto di lavoro è in corso può integrare stricto iure una responsabilità disciplinare del dipendente
Il caso: il licenziamento disciplinare
Nel caso che ci occupa, il Giudice di merito aveva accertato l’illegittimità del licenziamento per giusta causa operato dalla datrice di lavoro nei confronti del proprio dipendente, disponendo, per l’effetto, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e la condanna della società (datrice di lavoro) al pagamento della relativa indennità risarcitoria.
Nella specie, il licenziamento intimato al dipendente era stato giustificato da parte datoriale poiché il lavoratore aveva riportato, anteriormente alla costituzione del rapporto lavorativo, una condanna penale per associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti.
La Corte territorialmente competente aveva confermato gli esiti cui era giunto il Giudice di prime cure.
Illegittimo il licenziamento intimato per fatti molto risalenti
Avverso la decisione del Giudice di merito, la società ha proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione la quale, con ordinanza n. 8899/2024, ha rigettato il ricorso proposto e condannato la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.
Nel formulare le proprie contestazioni dinanzi al Giudice di legittimità, la datrice ha ribadito “di essere venuta a conoscenza delle condotte contestate solo (successivamente alla costituzione del rapporto) e sottolinea che la società opera esclusivamente nell’ambito dei contratti di appalto con la pubblica amministrazione e che in tale contesto la condotta extralavorativa, sebbene risalente, è rilevante e può ben integrare una giusta causa di risoluzione del rapporto di lavoro”. La società ha inoltre precisato che i fatti penalmente accertati fossero “idonei a ledere gravemente l’elemento fiduciario che deve sorreggere il rapporto di lavoro poiché violano quel “minimo etico” che è richiedibile al lavoratore”.
Rispetto alle suddette argomentazioni, la Corte ha sottolineato che “intanto può aversi una responsabilità disciplinare in quanto si tratti d'una condotta posta in essere mentre il rapporto di lavoro è in corso. Diversamente, non si configura neppure un obbligo di diligenza e/o di fedeltà ex artt. 2104 e 2105 c.c. e, quindi, una sua ipotetica violazione, l'unica che possa dare luogo ex art. 2106 c.c. a responsabilità disciplinare”.
Quanto sopra riferito, ha proseguito il Giudice di legittimità, non significa che le condotte costituenti reato, pur essendo state realizzate prima della costituzione del rapporto lavorativo, non possano di per sé integrare giusta causa di licenziamento. Sul punto la Corte ha infatti rilevato che “per giusta causa ai sensi degli artt. 2119 c.c. e 1 legge n. 604 del 1966 non si intende unicamente la condotta ontologicamente disciplinare, ma anche quella che, pur non essendo stata posta in essere in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro e magari si sia verificata anteriormente ad esso, nondimeno si riveli ugualmente incompatibile con il permanere di quel vincolo fiduciario che lo caratterizza e sempre che sia stata giudicata con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto”.
Ciò posto, ha sottolineato la Corte “il giudice dovrà direttamente valutare se la condotta extralavorativa sia di per sé incompatibile con l'essenziale elemento fiduciario proprio del rapporto di lavoro, osservando il seguente principio di diritto: Condotte costituenti reato possono (…) integrare giusta causa di licenziamento sebbene realizzate prima dell'instaurarsi del rapporto di lavoro, purché siano state giudicate con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto e si rivelino (…) incompatibili con il permanere di quel vincolo fiduciario che lo caratterizza”.
Sulla scorta dei suddetti principi e facendo riferimento al caso di specie, la Corte ha rilevato come “i fatti addebitati al lavoratore non solo sono risalenti nel tempo (…) ma la stessa irrevocabilità della sentenza di condanna (…) è precedente alla instaurazione del rapporto di lavoro (..) e la sentenza impugnata non manca di evidenziare come la società non abbia specificamente indicato “l’incidenza negativa” di fatti così risalenti “sulla funzionalità del rapporto”, e quindi il riflesso attuale sulla concretezza del rapporto limitandosi a prospettare un mero rischio ancorato a fatti accertati o commessi anteriormente alla instaurazione del rapporto di lavoro”.
In ragione di tale ricostruzione interpretativa la Corte ha dunque rigettato il ricorso proposto dalla società datrice di lavoro.
La Cassazione ha precisato che “il locatore può optare per la cedolare secca anche nell’ipotesi in cui il conduttore concluda il contratto di locazione ad uso abitativo nell’esercizio della sua attività professionale”
Locazione dell’immobile per i dipendenti di una società
Il caso prende avvio dal ricorso proposto dal locatore di un immobile, dinanzi alla Commissione tributaria territorialmente competente, con il quale veniva impugnato l’accertamento operato dall’Agenzia delle Entrate per omesso versamento dell’imposta di registro da parte del contribuente rispetto ad un contratto di locazione, avente ad oggetto un immobile ad uso abitativo, destinato al legale rappresentante della società conduttrice.
La Commissione tributaria aveva respinto le doglianze del contribuente, ritenendo in particolare che “il comma 6 dell’art. 3, d.lgs. n. 23 del 2011 esclude l’applicazione del regime sostitutivo di tassazione (c.d. «cedolare secca») previsto dal comma 1, a favore del locatore persona fisica che non esercita attività imprenditoriale, «alle locazioni di unità immobiliari ad uso abitativo effettuate nell’esercizio di una attività d’impresa, o arti e professioni», perché in tale esclusione rientra anche l’ipotesi in cui sia il conduttore ad esercitare attività d’impresa o arti o professioni”.
Avverso tale decisione, il locatore aveva proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione, sezione tributaria.
Regime di applicazione della cedolare secca
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 12395 del 07/05/2024, ha accolto il ricorso proposto e ha cassato la sentenza impugnata.
La Corte ha, nella specie, ritenuto che la censura avanzata dal ricorrente fosse fondata dal momento che il “proprietario o il titolare di un diritto reale di godimento di unità immobiliari abitative, e relative pertinenze, locate ad uso abitativo, che abbia optato per il regime della «cedolare secca», assolve il proprio obbligo tributario mediante versamento, in acconto e a saldo, della «cedolare secca»”.
A tal proposito, ha proseguito il Giudice di legittimità, i commi 1, 2, 4, 5 e 6 dell’art. 3, d.lgs. n. 23 del 2011, “non si applicano alle locazioni di unità immobiliari ad uso abitativo effettuate nell'esercizio di una attività d'impresa o di arti e professioni”.
Sulla scorta del quadro normativo sopra riferito, la Corte ha dunque evidenziato che, solo al locatore è riconosciuta “la possibilità di optare per il regime tributario della cedolare secca, senza che il conduttore possa in alcun modo incidere su tale scelta”.
Ne consegue, dunque, che l’esclusione dell’applicabilità del regime della cedolare secca riguarda esclusivamente le “locazioni di unità immobiliari effettuate dal locatore nell’esercizio della sua attività di impresa o della sua arte/professione, restando, invece, irrilevante la qualità del conduttore e la riconducibilità della locazione, laddove ad uso abitativo, alla attività professionale del conduttore”.
La Corte, partendo dal caso concreto alla stessa sottoposto, ha inoltre precisato che “l'Amministrazione finanziaria non ha poteri discrezionali nella determinazione delle imposte: di fronte alle norme tributarie, essa ed il contribuente si trovano su un piano di parità, per cui la cosiddetta interpretazione ministeriale, sia essa contenuta in circolari o risoluzioni, non costituisce mai fonte di diritto”.
Sulla base di quanto sopra riferito, il Giudice di legittimità ha concluso il proprio esame accogliendo il ricorso in virtù del seguente principio di diritto “in tema di redditi da locazione, il locatore può optare per la cedolare secca anche nell’ipotesi in cui il conduttore concluda il contratto di locazione ad uso abitativo nell’esercizio della sua attività professionale, atteso che l’esclusione di cui all’art. 3, sesto comma, d.lgs. n. 23 del 2011 si riferisce esclusivamente alle locazioni di unità immobiliari ad uso abitativo effettuate dal locatore nell'esercizio di una attività d'impresa o di arti e professioni. Pertanto la sentenza impugnata deve essere cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, con accoglimento dell’originario ricorso”.
Sempre più spesso ci capita di ricevere clienti portatori di ingenti crediti nei confronti di attività imprenditoriali le quali, al momento del tentativo di riscossione, risultano improvvisamente dileguate nel nulla oltrechè, ovviamente, in stato di liquidazione, se non già definitivamente cancellate dalle Camere di Commercio di competenza.
Nella maggior parte dei casi, vuoi per la particolare scaltrezza dell’imprenditore fedifrago, vuoi per il fatto che l’impresa (purtroppo, e succede spesso) ha effettivamente chiuso i battenti per non essere più in grado di adempiere alle proprie obbligazioni, il credito va considerato come elargito in beneficienza ovvero, nella migliore delle ipotesi, “messo a perdita” ai sensi della vigente normativa fiscale.
Non sempre, però, tutto è perduto.
Può capitare infatti, ed anzi, capita frequentemente, che l’imprenditore-debitore ritenga di poter sfruttare la limitazione di responsabilità giuridica della propria organizzazione societaria, abbandonandola, affogata di debiti, al proprio destino, per poi risorgere, come fenice dalla cenere, sotto altro nome (sempre societario) ma svolgendo, impunemente, praticamente e senza soluzione di continuità, la stessa attività della prima, senza neanche subire il disposto dell’art.2560, II° co., c.c., così fastidiosamente incidente sul trasferimento dei debiti da azienda cedente ad azienda ceduta.
La cospicua frequenza, come detto, di dette operazioni, e la conseguente ripetitività di azioni giudiziarie volte all’accertamento della sottostante operazione disonesta, hanno portato alla creazione della figura giurisprudenziale della “cessione d’azienda occulta”, secondo la quale, qui in estrema sintesi, laddove si riscontri, secondo i criteri che vedremo, una sostanziale identità, ovvero, un fattuale trasferimento d’azienda tra una società ed un'altra, la seconda potrà essere ritenuta giudizialmente responsabile dei debiti della prima. Analizzando infatti i numerosi casi concreti verificatisi, ci si accorge della sussistenza in tutti della stessa, ricorrente ed inequivocabile circostanza che il “secondo” (medesimo) imprenditore, vuoi per questioni affettive, vuoi, verosimilmente, per necessità di gestione dell’attività commerciale, non riesce mai a staccarsi completamente dalla prima azienda, se non facendo una blanda operazione di camouflage e dunque, esaminando le visure camerali delle due società riscontreremo: le stesse partecipazioni societarie, se seppure per quote diverse, e con aggiunta di nuovi soggetti; un identico oggetto sociale; una molto simile denominazione sociale; sede principale, o secondarie, immutate / scambiate .. etc..
Esaustivamente dirimente, sul punto, una sentenza del Tribunale di Treviso del 30 novembre 2018 n. 2395, tuttora immutata ed incontrastata, la quale, con ampia ed esauriente motivazione, ha rigettato l’opposizione ad un decreto ingiuntivo concesso in favore di un creditore di fatto subentrato nell’esercizio dell’azienda gestita da una -dissimulata- cedente, qui sostenendo la tesi della cessione occulta d’azienda e stabilendo che detta cessione occulta può essere provata dal creditore tramite presunzioni semplici, seppure gravi, precise e concordanti, chiaramente identificando e classificando le più rilevanti, quali, ad esempio:
- l’identità della ditta;
- l’identità della sede;
- l’esercizio di attività sostanzialmente similare;
- l’utilizzo di medesimi/simili recapiti e di domìni internet, tutti facilmente riconducibili alla “cedente”.
Insomma, così come nei più classici dei romanzi gialli, l’assassino torna sempre sulla scena del delitto, così l’imprenditore/debitore-cedente/ceduto torna, anzi non va mai via, dalla propria comfort-zone d’impresa.
Ed è proprio lì che, se si vuole tentare di recuperare un credito ritenuto perso, bisogna andare a cercare.