Archive of January 2024

Nullità del licenziamento ritorsivo e onere della prova

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Con l’ordinanza n. 741 del 9 gennaio 2024, la Suprema Corte ha chiarito che ai fini dell’accertamento della nullità di un licenziamento in quanto fondato su un motivo illecito, è necessario dimostrare che l’intento ritorsivo è un'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del dipendente.

IL CASO

Tizio agiva in giudizio, dinanzi al Tribunale in funzione di giudice del lavoro, per far dichiarare la nullità o, in subordine, l’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli dalla società Alfa. Il giudice di prime cure, all’esito della fase sommaria, respingeva il ricorso ritenendo legittimo il licenziamento. Lo stesso Tribunale, con sentenza emessa nel giudizio di opposizione, dichiarava illegittimo il licenziamento per difetto di proporzionalità della sanzione espulsiva e applicava la tutela prevista dall’art. 18, comma 5, della L. n. 300 del 1970, come modificato dalla L. n. 92 del 2012. I giudici del gravame accoglievano il reclamo proposto da Tizio e dichiaravano nullo il licenziamento poiché ritorsivo, disponendo la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro con conseguente pagamento di tutte le retribuzioni maturate medio tempore.

LA CENSURA

La società Alfa si rivolgeva alla Suprema Corte deducendo, in particolare, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell’art. 1345 c.c. e dell’art. 18, comma 1, della L. n. 300 del 1970, modificata dalla L. n. 92 del 2012, per avere la Corte territoriale deciso in contrasto con l’orientamento di legittimità, secondo cui il motivo illecito deve essere determinante, cioè costituire l'unica effettiva ragione di recesso, ed essere esclusivo, mentre nella vicenda esaminata, il motivo lecito formalmente addotto, cioè l’addebito contestato, sussisteva, sebbene giudicato tale da non integrare una giusta causa di recesso. La società ricorrente asseriva che, a fronte di condotte aventi rilievo disciplinare, anche se non giudicate rappresentative di una giusta causa di recesso, il giudice è tenuto comunque a valutare se il licenziamento è intervenuto per un errato (ma lecito) giudizio prognostico datoriale di non proseguibilità del rapporto, oppure per cogliere una (illecita) occasione di liberarsi di un dipendente indesiderato.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

La Cassazione dava ragione alla società Alfa. I giudici di piazza Cavour definivano il licenziamento ritorsivo come “l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito (diretto) o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione (indiretto), che attribuisce al licenziamento il connotato della ingiustificata vendetta”. Per gli Ermellini, “Il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta, è considerato un “licenziamento nullo quando il motivo ritorsivo, come tale illecito, sia stato l'unico determinante dello stesso, ai sensi del combinato disposto dell'art. 1418, secondo comma, e degli artt. 1345 e 1324 c.c.”. Tuttavia, per l’accoglimento della domanda di nullità del licenziamento in quanto fondato su motivo illecito, occorre provare che l'intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro. La Suprema Corte sottolineava che “L'onere della prova della esistenza di un motivo di ritorsione del licenziamento e del suo carattere determinante la volontà negoziale grava sul lavoratore che deduce ciò in giudizio” e che si tratta “di prova non agevole, sostanzialmente fondata sulla utilizzazione di presunzioni, tra le quali presenta un ruolo non secondario anche la dimostrazione della inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione del licenziamento o di alcun motivo ragionevole”. Per i giudici di legittimità, nella fattispecie esaminata, la Corte d’Appello aveva erroneamente attribuito efficacia determinativa esclusiva al motivo ritorsivo solo a causa della inidoneità dell’addebito, per difetto di proporzionalità, nonostante avesse preventivamente accertato la commissione dell’illecito disciplinare.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Adozione: la Consulta interviene sull’intervallo di età minimo

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Adozione: la Consulta interviene sull’intervallo di età minimo La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 291, comma 1, c.c. nella parte in cui, per l’adozione del maggiorenne, non consente al giudice di ridurre l’intervallo di età di diciotto anni fra adottante e adottando

Il caso: la questione di legittimità costituzionale La vicenda prende avvio dalla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Firenze – in riferimento agli artt. 2, 3, 10, comma 1 (in relazione agli artt. 8 della CEDU, 7 della CDFUE e 16 della Dichiarazione universale dei diritti umani), e 30 della Costituzione – dell’art. 291, comma 1, c.c., “nella parte in cui non consente al giudice di dichiarare l’adozione di maggiorenne derogando al limite del divario di età tra adottante ed adottando imposto in 18 anni nei casi di esigua differenza di età”. Nella specie, l’istante si era rivolta al Tribunale di Firenze richiedendo di adottare un soggetto maggiorenne, figlio del proprio marito e orfano di madre. La richiedente aveva in particolare rappresentato di aver contratto matrimonio nel ’68 con il padre dell’orfano, il quale aveva sempre vissuto con loro dall’età di 5 anni; a tal proposito, la richiedente aveva affermato di essersi sempre presa cura del figlio di suo marito e di averlo cresciuto senza alcuna differenza rispetto alla figlia biologica, nata dal matrimonio con il suddetto marito. Dall’esposizione dei fatti era altresì emerso che la differenza di età rispetto al figlio del coniuge è pari “a 17 anni e 3 mesi, sicché non risulta nella specie pienamente sussistente il requisito del divario minimo di età di 18 anni, imposto dall’art. 291, primo comma, cod. civ.”. Ciononostante, la richiedente aveva evidenziato che il legame affettivo esistente tra la stessa ed il figlio del coniuge “merita tutela in ossequio ai principi costituzionali, tra cui quello dell’unità familiare (art. 30 Cost.) e del rispetto della vita privata e familiare”. Il Tribunale rimettente, dopo aver dato atto delle dichiarazioni di consenso all’adozione espresse all’udienza camerale dagli aventi causa, aveva rilevato che “risulta oggettivamente non rispettato il differenziale di età fra la richiedente l’adozione e l’adottando, prescritto dall’art. 291, primo comma, cod. civ. Tuttavia, è pacifica l’esistenza di un lungo e positivo legame di affetto e solidarietà tra gli aspiranti all’adozione, tipico del rapporto genitoriale. Risulta, altresì, evidente, secondo il giudice a quo, il requisito della convenienza all’adozione, ai sensi dell’art. 312, numero 2), cod. civ., trovando l’interesse del figlio del coniuge dell’adottante effettiva e reale rispondenza nella comunione di intenti di tutti i membri della famiglia”. Alla stregua di tali considerazioni, il Tribunale di Firenze aveva sollevato, come sopra detto, questione di legittimità costituzionale dinanzi al Giudice delle leggi.

La Consulta ammette, entro certi limiti, la deroga all’art. 291, comma 1, c.c. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 5/2024, chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale sottoposta alla sua attenzione, ha accolto le censure espresse dal Tribunale rimettente. La Corte, dopo aver ripercorso la normativa e la giurisprudenza riguardanti l’istituto dell’adozione, con particolare riguardo all’adozione del soggetto maggiorenne, è entrata nel merito della questione di legittimità costituzionale. Sul punto, il Giudice delle leggi ha affermato che “L’adozione di persone maggiori di età non persegue più, e soltanto, per come vive attualmente nell’ordinamento, la funzione tradizionale di trasmissione del cognome e del patrimonio, con conseguenze destinate a riverberarsi sul mero piano di disciplina relativa agli alimenti e alle successioni, ma è divenuto uno strumento duttile e sensibile alle sollecitazioni della società, in cui assumono crescente rilevanza i profili personalistici, accanto a quelli patrimoniali. L’istituto – suggellando sovente l’effettiva e definitiva coincidenza tra situazione di fatto e status – formalizza legami affettivo-solidaristici che, consolidatisi nel tempo e preesistenti al riconoscimento giuridico, sono rappresentativi dell’identità dell’individuo”. Ne consegue, afferma la Corte, che “La disposizione censurata, non consentendo al giudice di intervenire, derogando, se del caso, al limite minimo nel divario di età tra adottante e adottando, si rivela in radice incapace di tutelare situazioni affettive largamente affermatesi, senza che tale assoluto sacrificio trovi coerente giustificazione compensativa. L’attuale conformazione dell’istituto rende, anche in questo caso, «palese l’irragionevolezza di una regola priva di un margine di flessibilità» (…), in quanto destinata ad entrare in frizione, nell’assolutezza della previsione, con il diritto costituzionale inviolabile all’identità personale”. Pertanto, “L’ordinario divario di età tra adottante e adottato mantiene intatta, del resto, la sua valenza. È la assoluta inderogabilità di esso che entra in frizione con i richiamati principi costituzionali. Il punto di equilibrio è nell’accertamento rimesso al giudice (come previsto, in tema di assensi, dall’art. 297, secondo comma, cod. civ.), che, caso per caso e nel bilanciamento degli interessi coinvolti, individuati in ragione della nuova funzionalità dell’istituto, provvederà ad apprezzare se esistano motivi meritevoli che consentano di derogarvi nel caso in cui la riduzione di quel divario risulti esigua”. Sulla scorta di tutto quanto sopra riferito, la Corte ha dunque concluso il proprio esame dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 291, comma 1, c.c. “nella parte in cui, per l’adozione del maggiorenne, non consente al giudice di ridurre, nei casi di esigua differenza e sempre che sussistano motivi meritevoli, l’intervallo di età di diciotto anni fra adottante e adottando”.


Sì al licenziamento del lavoratore che non timbra quando esce per la pausa pranzo

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La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 30418/2023, ha stabilito che rischia il licenziamento il dipendente che abbandona il posto di lavoro per la pausa pranzo senza timbrare.

IL CASO

Il Tribunale respingeva il ricorso con il quale Sempronia, collaboratrice amministrativa presso l’istituto Gamma, aveva impugnato il licenziamento disciplinare che le era stato irrogato dal MIUR. Secondo il giudice di primo grado, le condotte ascritte alla dipendente, che in cinque occasioni nell’anno 2017 si era allontanata dall’istituto Gamma per tutta la durata della pausa pranzo senza strisciare il badge sia all’uscita che al rientro, non erano contestate nella loro materialità e integravano la fattispecie di cui all’art. 55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001. I giudici d’appello rigettavano il gravame proposto dalla lavoratrice nei confronti del MIUR, dell’Ufficio scolastico territoriale Alfa e dell’Ufficio scolastico regionale Beta, avverso la sentenza resa tra le parti dal Tribunale.

LA CENSURA

Sempronia si rivolgeva alla Suprema Corte lamentando la violazione ed errata applicazione delle norme di diritto di cui agli artt. 2106, 2119, 1455, c.c., della norma di cui all’art. 55- quater, del d.lgs. n. 165 del 2001, comma 1, lett. a), 1-bis e 3, così come da modifiche di cui al d.lgs. n. 116 del 2016, dell’art. 12 del CCNL Comparto istruzione e ricerca triennio 2016-2018, nonché degli artt. 3 e 35, Cost., in ordine all’art. 360, n. 3, c.p.c. Secondo la ricorrente, i giudici del gravame avevano applicato l’art. 55-quater, commi 1, lett. a), 1-bis e 3, e aveva richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale è da escludere qualunque automatismo nell’irrogazione della sanzione disciplinare espulsiva, ma erroneamente non aveva considerato gli elementi volti ad attenuare l’intensità dell’elemento soggettivo e la gravità del comportamento assunto dalla dipendente relativamente alla sanzione disciplinare comminata.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

I giudici di piazza Cavour davano torto a Sempronia chiarendo che nella fattispecie esaminata veniva in rilievo “il licenziamento disciplinare per falsa attestazione della presenza sul luogo di lavoro, concretizzatasi non già mediante materiale alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza, bensì “con altre modalità fraudolente” e cioè la mancata timbratura dell’uscita dall’ufficio, non autorizzata”. Secondo il Supremo Consesso, “La condotta di rilievo disciplinare se, da un lato, non richiede un'attività materiale di alterazione o manomissione del sistema di rilevamento delle presenze in servizio, dall'altro deve essere oggettivamente idonea ad indurre in errore il datore di lavoro, sicché anche l'allontanamento dall'ufficio, non accompagnato dalla necessaria timbratura, integra una modalità fraudolenta, diretta a rappresentare una situazione apparente diversa da quella reale”. Dal piano di lavoro del personale ATA per l’a.s. 2016/2017, richiamato dai giudici di merito, emergeva che l’accertamento della presenza sul posto di lavoro del personale doveva avvenire attraverso la timbratura elettronica del badge personale e che nel caso di dimenticanza del badge bisognava segnalare tempestivamente la cosa al DGSA. Per di più, dalla comunicazione n. 98 del 17 gennaio 2009 risultava che il personale ATA dell’istituto Gamma fosse stato specificamente informato delle modalità di utilizzo del badge e dell’obbligo di procedere alla timbratura in ogni occasione di assenza dal luogo di lavoro per motivi personali. Pertanto, le condotte di Sempronia non potevano essere giustificate o comunque valutate con minor rigore soltanto perché poste in essere in coincidenza dell’orario della pausa pranzo, atteso che era chiara a tutto il personale l’esistenza dell’obbligo di procedere alla timbratura anche nel caso di assenza per recarsi a pranzo. In virtù di ciò, la Suprema Corte rigettava il ricorso della dipendente.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


L’amministratore non recupera le spese condominiali: quali conseguenze?

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Con l’ordinanza n. 36277 del 28 dicembre 2023, la Suprema Corte ha precisato che è tenuto a risarcire il condominio l’amministratore che non agisce contro i condòmini morosi per il recupero delle spese condominiali.

IL CASO

Tizio citava in giudizio il condominio Alfa domandando la condanna del convenuto al pagamento del complessivo importo di euro 5.074,03 a titolo di compensi e rimborsi spese per il periodo in cui egli aveva ricoperto la carica di amministratore del condominio medesimo. Costituitosi in giudizio, il Condominio si opponeva alla domanda attorea e formulava una domanda riconvenzionale per sentir condannare Tizio al risarcimento dei danni procurati al Condominio nell’ambito dell’attività gestionale. Il giudice di prime cure accoglieva la domanda principale nei limiti dell’importo di euro 388,90, mentre rigettava la domanda riconvenzionale. A seguito di appello principale di Tizio ed incidentale del Condominio, i giudici di secondo grado rigettavano il gravame principale e accoglievano parzialmente quello incidentale condannando Tizio a pagare al Condominio la somma di euro 20.905,17. La Corte distrettuale rilevava l’inadempimento di Tizio ai propri obblighi di amministratore per non aver promosso azioni giudiziarie finalizzate al recupero delle spese condominiali non versate dai soci morosi e in particolar modo dalla società Beta; l’inerzia preservata a lungo da Tizio aveva condotto alla impossibilità definitiva del recupero del credito dal momento che la predetta società era stata cancellata dal Registro delle Imprese.

LA CENSURA

Tizio si rivolgeva alla Corte di Cassazione deducendo, in particolare, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1130, 1 co. n. 3 c.p.c. e dell’art. 63, 1 co. disp. att. c.p.c. in ordine all’art. 360, co. 1 n. 3 c.p.c. Il ricorrente asseriva che la sentenza aveva considerato negligente il comportamento dell’amministratore valorizzando in particolare la mancata iniziativa di riscossione coattiva dei crediti del condominio Alfa nei confronti della società Beta in virtù di una normativa sopravvenuta costituita dalla L. n. 220/2012 che, in quanto sopravvenuta, non avrebbe potuto essere applicata.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

La Cassazione dava torto a Tizio. Secondo i giudici di legittimità, la sentenza impugnata aveva correttamente ritenuto che Tizio avrebbe potuto proporre ricorso per decreto ingiuntivo ottenendo anche la provvisoria esecuzione dello stesso ed iscrivere ipoteca giudiziale sugli immobili in vendita, in modo tale da scongiurare il rischio che la società debitrice, venendo cancellata dal registro delle imprese, non potesse essere più un soggetto escutibile. Inoltre, gli Ermellini sottolineavano la non sussistenza di alcun vizio di sussunzione in ordine ad una normativa sopravvenuta, in quanto, anche antecedentemente all’entrata in vigore della L. n. 220/2012 non applicabile ratione temporis, l’amministratore era tenuto a provvedere al recupero dei crediti del Condominio ai sensi dell’art. 1130, 1° co. n. 3 c.c. nonché ex art. 63 disp. att. c.c. In virtù di ciò, il Supremo Consesso rigettava il ricorso di Tizio.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Fare il “Saluto romano”, è reato?

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Fare il “Saluto romano”, è reato? Occorre avere riguardo a tutte le circostanze del caso, per verificare se la condotta sia idonea ad integrare il concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista

Il caso: “saluto romano” durante manifestazione pubblica La vicenda in esame prende avvio dai fatti avvenuti durante la manifestazione pubblica del 29.04.2016 a Milano, in occasione della quale gli imputati avevano risposto alla chiamata del “presente”, eseguendo il “saluto fascista”, anche noto come “saluto romano”. La manifestazione in questione, cui avevano partecipato oltre mille persone, era volta a commemorare la morte di un militante del Fronte della Gioventù, ucciso nel ’76 da esponenti dell’Avanguardia Operaia. Rispetto ai fatti appena narrati, il Tribunale di Milano aveva assolto gli imputati dal reato ascrittogli ai sensi dell’art. 81, comma 2, 110, comma 1, c.p., d.l. 26 aprile 1993, n. 122, per insussistenza dell’elemento soggettivo. Tale decisione veniva integralmente riformulata in secondo grado, ove la Corte d’appello di Milano aveva condannato gli imputati poiché la precedente pronuncia di assoluzione non riguardava l’ipotesi di reato oggetto di contestazione processuale, ma la diversa fattispecie di cui all’art. 5 legge n. 645/1952. Avverso la sentenza di secondo grado gli imputati avevano proposto ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.

Rimessione della questione alle Sezioni Unite La Corte investita della questione sopra descritta, con ordinanza n. 38686/2023, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite visto il forte contrasto interpretativo riscontrato in seno alla Suprema Corte in ordine alle fattispecie delittuose contestate. A tal proposito, la Corte ha ripercorso sinteticamente i contrapposti orientamenti giurisprudenziali formatisi sul punto. In particolare, spiega il Giudice, secondo “un primo orientamento giurisprudenziale, che ritiene il “saluto fascista” sussumibile nella fattispecie dell’art. 2 d.l. n. 122 del 1993, tale manifestazione esteriore costituisce una rappresentazione tipica delle organizzazioni o dei gruppi che perseguono obiettivi di discriminazione razziale, etnica o religiosa, essendo costituiti per favorire la diffusione di ideologie discriminatorie. Secondo tale opzione ermeneutica, il “saluto fascista” è «una manifestazione esteriore propria od usuale di organizzazioni o gruppi indicati nel decreto-legge 26 aprile 1993, n. 1993 […], ed inequivocabilmente diretti a favorire la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico»”. La Corte ha proseguito riportando il secondo e contrapposto orientamento giurisprudenziale che “ritiene il “saluto fascista” riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 5 della legge n. 645 del 1952 e postula che tali condotte siano idonee a determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni che si ispirano, direttamente o indirettamente, all’ideologia del disciolto partito fascista”, in questo senso, prosegue la Corte, l’orientamento in esame ha ritenuto che il suddetto delitto di cui all’art. 5 l. n. 645/52 “è reato di pericolo concreto, che non sanziona le manifestazioni del pensiero e dell’ideologia fascista in sé, attese le libertà garantite dall’art. 21 Cost., ma soltanto ove le stesse possano determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste, in relazione al momento ed all’ambiente in cui si sono compiute, attentando concretamente alla tenuta dell’ordine democratico e dei valori ad esso sottesi”. Il Giudice di legittimità ha invocato l’intervento delle Sezioni Unite anche al fine di chiarire, se le fattispecie in esame configurino un reato di pericolo concreto o di pericolo astratto e per stabilire se tra il reato di cui all’art. 5 l. n. 645/52 e quello di cui all’art. 2 del d.l. n. 122/93 vi sia o meno un rapporto di specialità ai sensi dell’art. 15 c.p.

Quesito posto alle Sezioni Unite Al termine del suddetto esame, la Corte ha pertanto rimesso la questione alle Sezioni Unite formulando il seguente quesito “Se la condotta consistente nel protendere in avanti il braccio nel “saluto fascista”, evocativa della gestualità tipica del disciolto partito fascista, tenuta nel corso di una manifestazione pubblica, senza la preventiva identificazione dei partecipanti quali esponenti di un’associazione esistente che propugni gli ideali del predetto partito, integri la fattispecie di reato di cui all’art. 2 d.l. 26 aprile 1993, n. 122 (…), ovvero la fattispecie di reato di cui all’art. 5 legge 30 giugno 1952, n. 645; se entrambe le disposizioni configurino un reato di pericolo concreto o di pericolo astratto e se le stesse siano tra loro in rapporto di specialità oppure possano concorrere”.

Decisione delle Sezioni Unite Rispetto al suddetto quesito, la Corte a ss. uu., all’esito dell’udienza del 18.01.2024, ha reso nota la seguente decisione “La condotta tenuta nel corso di una pubblica manifestazione consistente nella risposta alla "chiamata del presente" e nel c.d. "saluto romano", rituali entrambi evocativi della gestualità propria del disciolto partito fascista, integra il delitto previsto dall'art. 5 della legge 20 giugno 1952, n. 645, ove, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso, sia idonea ad integrare il concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, vietata dalla XII disposizione transitoria e finale della Costituzione. A determinate condizioni può configurarsi anche il delitto previsto dall'art. 2 del decreto-legge 26 aprile 1983, convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 1993, n. 205 che vieta il compimento di manifestazioni esteriori proprie o usuali di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Tra i due delitti non sussiste rapporto di specialità. I due delitti possono concorrere sia materialmente che formalmente in presenza dei presupposti di legge”. Le motivazioni della decisione non sono ancora state depositate dalla Corte.