Archive of March 2023

Sinistro stradale e frazionamento del danno

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È possibile il frazionamento del danno qualora, in occasione di un sinistro stradale, il danneggiato promuova due procedimenti distinti per ottenere il risarcimento dei danni alle cose e alla persona, che conseguono allo stesso incidente? A tale interrogativo ha fornito risposta la Suprema Corte con l’ordinanza n. 2278/2023. Mevio, motociclista, citava in giudizio il comune Alfa per ottenere il risarcimento dei danni dallo stesso patiti a causa di un avvallamento del manto stradale non segnalato. L’attore asseriva di aver precedentemente promosso un separato giudizio per i danni conseguiti al motociclo, precisando che detto giudizio si era concluso con una sentenza di condanna nei confronti dell’ente. La domanda di Mevio veniva rigettata dal Tribunale, poiché ritenuta improponibile per l’illegittimo frazionamento del credito. I giudici del gravame confermavano la sentenza del giudice di prime cure; secondo la Corte distrettuale, la scelta di agire separatamente per il danno al mezzo e per il danno alla persona non era stata determinata dall’effettiva incertezza sul consolidamento degli esiti negativi del sinistro sulla salute di Mevio e detta scelta del danneggiato avrebbe determinato un abuso dello strumento processuale. A questo punto, Mevio si rivolgeva alla Corte di Cassazione, la quale dava torto al ricorrente. Secondo il Tribunale Supremo, le domande concernenti diversi e distinti diritti di credito, sebbene relativi ad uno stesso rapporto, possono essere proposte in separati processi, soltanto nel caso in cui risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata. Pertanto, pur non essendo completamente precluso al danneggiato, in astratto, di agire separatamente per due diversi danni che derivano dallo stesso fatto illecito, ciò può avvenire esclusivamente in presenza dell'effettiva dimostrazione, da parte dell'attore, della sussistenza di un interesse obiettivo al frazionamento. Detto interesse non può consistere in una scelta soggettiva dettata da criteri di mera opportunità e neanche dalla prospettata maggiore speditezza del procedimento davanti ad uno piuttosto che ad un altro dei Giudici aditi.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Il dipendente che minaccia il datore è passibile di licenziamento

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Con una recente pronuncia (ordinanza n. 6584 del 6 marzo 2023), la sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha stabilito che il dipendente che rivolge minacce al suo datore di lavoro è passibile di licenziamento, non avendo rilevanza il fatto che l'accaduto sia conseguito a un particolare stato psicologico ed emotivo del lavoratore. Tizio, guardia giurata, dopo essere stato sentito da Caio, Amministratore delegato della società presso cui lavorava, in sede di presentazione delle giustificazioni in ordine ad una contestazione disciplinare, aveva raggiunto il piazzale della società e, in preda alla rabbia, aveva tirato fuori una pistola pronunciando parole minacciose contro il suo titolare. Nel riformare la sentenza del giudice di prime cure, i giudici del gravame respingevano l'impugnazione del licenziamento per giusta causa intimato a Tizio e condannavano quest'ultimo a restituire alla propria società datrice la somma di 12.480,00 euro, percepita in esecuzione della pronuncia di primo grado. Tizio si rivolgeva alla Suprema Corte di Cassazione, la quale gli dava torto. I giudici di piazza Cavour evidenziavano che la Corte territoriale non aveva affrontato il problema relativo alla corretta identificazione dell’oggetto dell’addebito (cioè se lo stesso fosse connesso o meno a profili concernenti stati emotivi e psicologici oppure riguardanti la sola condotta minacciosa del dipendente relativa a quel singolo episodio), dal momento che dalla sentenza impugnata emergeva che il fatto oggetto di addebito fosse costituito dall'episodio accaduto sul piazzale dell’azienda. Pertanto, per potersi sottrarre alla sanzione di inammissibilità per violazione del divieto di novum, il ricorrente avrebbe dovuto dimostrare l'allegazione e la deduzione della questione dinanzi al giudice di secondo grado. Secondo gli Ermellini, “La censura che denunzia errata applicazione della nozione di insubordinazione in relazione alla connessa necessità del verificarsi di un pregiudizio per la società datrice di lavoro, non si confronta con le effettive ragioni della decisione nella quale la valutazione di gravità della condotta non concerne solo il profilo di ribellione all’autorità datoriale titolare del potere disciplinare, ma risulta specificamente collegata alle particolari modalità con le quali si è estrinsecata la condotta addebitata, da ritenersi particolarmente pericolose e minacciose in quanto accompagnate dall’estrazione dalla fondina di un’arma caricata”. In virtù di ciò, i giudici di legittimità rigettavano il ricorso e condannavano il ricorrente alla rifusione delle spese di lite.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Accesso civico e accesso agli atti: differenze

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L’accesso agli atti e l’accesso civico costituiscono gli strumenti attraverso i quali è possibile conoscere dati, informazioni e documenti detenuti dalla Pubblica Amministrazione. Mentre l’accesso agli atti è disciplinato dagli artt. 22 e ss. della L. n. 241/1990, l’accesso civico è contemplato dall’art. 5 del D.Lgs 33/2013. Sebbene abbiano lo stesso scopo, tra i due istituti intercorrono delle specifiche differenze. L’accesso agli atti, detto anche accesso documentale, è quello esercitabile esclusivamente da quei soggetti portatori di un interesse qualificato inerente al documento al quale è connessa la richiesta; dunque, è fondamentale che il richiedente abbia un interesse diretto, concreto e attuale rispetto al documento stesso. Il diritto di accesso deve essere garantito per effetto della sola dimostrazione, da parte dell’istante, dell’esistenza di un proprio interesse giuridico bisognevole di tutela, con esclusione di ogni sindacato dell’Amministrazione sulla fondatezza e pertinenza delle azioni che lo stesso istante intende intraprendere; l’istante deve fornire elementi idonei a dimostrare in maniera chiara e concreta la sussistenza di un interesse diretto, concreto, attuale e corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso (sentenze del Tar Bolzano n. 4 del 2017 e del Consiglio di stato n. 1578 del 2018): non risulta pertanto sufficiente un semplice interesse generico e diffuso alla conoscenza degli atti amministrativi, finalizzato ad un controllo generalizzato sull’attività dell’amministrazione o avente carattere meramente esplorativo (sent. Tar Roma n. 30/2012). L’istanza di accesso agli atti va presentata alla Pubblica Amministrazione che detiene il documento e deve essere regolarmente motivata. L'ente decide entro trenta giorni, trascorsi i quali la domanda si intende respinta. L’accesso agli atti è soggetto a dei limiti, i quali sono previsti dall’art. 24 della legge n. 241/1990 e sono strettamente connessi alla tutela di interessi pubblici fondamentali e prioritari rispetto all’interesse alla conoscenza degli atti amministrativi. Si pensi, ad esempio, ai documenti coperti da segreto di Stato (a norma dell’art. 39, L. n. 124/2007), ai procedimenti contemplati dal D.L. 8/1991 recante norme in materia di sequestri di persona e di protezione dei testimoni di giustizia (conv. in L. 82/1991 e succ. modif.), ai documenti coperti da segreto o divieto di divulgazione altrimenti previsto dall’ordinamento e ai documenti esclusi dal diritto di accesso per mezzo di appositi regolamenti governativi, al fine di salvaguardare la sicurezza, la difesa nazionale e le relazioni internazionali, la politica monetaria e valutaria, l’ordine pubblico e la prevenzione e repressione dei reati, la riservatezza dei terzi, persone, gruppi ed imprese. L’art. 23 prevede, invece, dei limiti facoltativi, i quali possono portare esclusivamente al differimento dell’accesso ai documenti laddove la conoscenza può impedire o gravemente ostacolare lo svolgimento dell’azione amministrativa. Per quanto concerne l’accesso civico, esso permette a qualunque soggetto di accedere a dati, documenti e informazioni della P.A. senza dover dimostrare un interesse qualificato. L’accesso civico si distingue in semplice e generalizzato. Il primo consente a chiunque, senza indicare motivazioni, il diritto di richiedere ad una P.A. dati, documenti e informazioni qualora sia stata omessa la loro pubblicazione. Il secondo consente a qualunque soggetto, senza indicare motivazioni, il diritto di accedere ai dati e ai documenti della P.A., ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti secondo quanto previsto dall'articolo 5-bis del D.Lgs. 33/2013. La disciplina dell’accesso civico generalizzato, fermi i divieti temporanei o assoluti di cui all’art. 53 del d.lgs. n. 50 del 2016, è applicabile anche agli atti delle procedure di gara, ed in particolare all’esecuzione dei contratti pubblici (nel cui contesto si colloca la fase del collaudo, alla quale pertiene la documentazione di cui l’appellante ha chiesto l’ostensione), ma deve essere verificata la compatibilità di tale forma di accesso con le eccezioni enucleate dall’art. 5-bis, commi 1 e 2, dello stesso d.lgs. n. 33 del 2013, a tutela degli interessi-limite, pubblici e privati, previsti da tale disposizione, nel bilanciamento tra il valore della trasparenza e quello della riservatezza (Cons. Stato, Ad. Plen., 2 aprile 2020, n. 10). Nell’accesso civico generalizzato, nel quale la trasparenza si declina come “accessibilità totale”, si ha un accesso dichiaratamente finalizzato a garantire il controllo democratico sull’attività amministrativa (Cons. Stato, Sez. VI, 5 ottobre 2020, n. 5861). L’istanza di accesso civico non è sottoposta ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente. La richiesta può essere trasmessa per posta elettronica certificata e presentata alternativamente ad uno dei seguenti uffici: • all'Ufficio che detiene i dati, le informazioni o i documenti; • all'Ufficio Relazioni con il Pubblico; • al Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, ove la richiesta riguardi dati, informazioni o documenti oggetto di pubblicazione obbligatoria. L'accesso civico è rifiutato qualora il diniego sia necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno degli interessi pubblici riguardanti: la sicurezza pubblica e l'ordine pubblico; la sicurezza nazionale; la difesa e le questioni militari; le relazioni internazionali; la politica e la stabilità finanziaria ed economica dello Stato; la conduzione di indagini sui reati e il loro perseguimento; il regolare svolgimento di attività ispettive. Inoltre, l’accesso civico è rifiutato nel caso in cui il diniego sia necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno degli interessi privati che seguono: la protezione dei dati personali, in conformità con la disciplina legislativa in materia; la libertà e la segretezza della corrispondenza; gli interessi economici e commerciali di una persona fisica o giuridica, ivi compresi la proprietà intellettuale, il diritto d'autore e i segreti commerciali.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Revoca dell’amministratore di condominio: alcune sentenze rilevanti

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Il decreto del tribunale in tema di revoca dell’amministratore di condominio, ai sensi degli artt. 1129 c.c. e 64 disp. att., c.c., costituisce un provvedimento di volontaria giurisdizione, in quanto sostitutivo della volontà assembleare ed ispirato dall’esigenza di assicurare una rapida ed efficace tutela dell’interesse alla corretta gestione dell’amministrazione condominiale in ipotesi tipiche di compromissione della stessa. L’art. 1129 c.c. affida la titolarità del potere di revoca solamente all’assemblea, mentre la revoca disposta dall’autorità giudiziaria ha un esplicito carattere sanzionatorio, sicché, rispetto ad essa, il ruolo del singolo condomino è esclusivamente di impulso procedimentale. Pur incidendo sul rapporto di mandato tra condomini ed amministratore, il decreto di revoca non ha, pertanto, carattere decisorio, non precludendo la richiesta di tutela giurisdizionale piena, in un ordinario giudizio contenzioso, relativa al diritto su cui il provvedimento incide. (Cass. Civ. Sez. II, 02/02/2023, n. 3198)

Nel giudizio promosso da un condomino per la revoca dell'amministratore, interessato e legittimato a contraddire è soltanto l'amministratore (a titolo personale), non anche il Condominio, che, pertanto, non può intervenire in adesione all'amministratore, né beneficiare della condanna alle spese del condomino ricorrente. (Cass. Civ. Sez. II, 30/01/2023, n. 2726)

L’omessa dimostrazione del possesso dei requisiti di cui all’art. 71-bis, lett. g), disp. att. c.c. e dell’ottemperanza all’obbligo di una continuativa formazione periodica, a parere di questo collegio, costituisce già di per sé una grave irregolarità che giustifica la revoca dell’amministratore, in linea con l’orientamento maggioritario della giurisprudenza di merito. (Trib. Vasto, 12/11/2022, n. 4454)

L’amministratore di condominio, in ipotesi di revoca deliberata dall’assemblea prima della scadenza del termine previsto nell’atto di nomina, ha diritto, oltre al soddisfacimento dei propri eventuali crediti, anche al risarcimento dei danni, in applicazione dell’art. 1725, comma 1, c.c., salvo che sussista una giusta causa, indicativamente ravvisabile tra quelle che giustificano la revoca giudiziale dello stesso incarico. (Cass. Civ. Sez. II, 19/03/2021, n. 7874)

È inammissibile il ricorso per cassazione, ai sensi dell’articolo 111 della Costituzione, avverso il decreto con il quale la corte di appello provvede sul reclamo avverso il decreto del tribunale in tema di revoca dell’amministratore di condominio, previsto dagli articoli 1129 del codice civile e 64 delle disposizioni attuative del codice civile, trattandosi di provvedimento di volontaria giurisdizione; tale ricorso è, invece, ammissibile soltanto avverso la statuizione relativa alla condanna al pagamento delle spese del procedimento, concernendo posizioni giuridiche soggettive di debito e credito discendenti da un rapporto obbligatorio autonomo. (Cass. Civ. Sez. VI, 22/09/2020, n. 19859)

In tema di condominio, il singolo condomino è legittimato a chiedere la revoca giudiziale dell’amministratore in tutti i casi – seppure non tipici – di comportamenti contrari ai doveri imposti dalla legge e dal regolamento o che, comunque, pregiudichino la gestione economica o sociale del condominio, e ciò a prescindere dalla inerzia o volontà contraria dell’assemblea. In tal giudizio, è esclusa la mediazione in quanto si tratta di un procedimento di volontaria giurisdizione. (Trib. Milano sez. giurisd., 28/03/2018, n. 955)

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'


Lettera di licenziamento: la motivazione costituisce elemento essenziale

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La Corte d’Appello di Roma, con la sentenza n. 637 del 6 marzo 2023, ha stabilito che il datore, nella lettera con cui comunica il licenziamento al lavoratore, deve specificare la motivazione del licenziamento, mentre non è necessaria l’indicazione di tutti gli altri elementi posti alla base del provvedimento. Il Tribunale, nel respingere il ricorso di Sempronio, rilevava l’inammissibilità della domanda del lavoratore per tardività dell’impugnativa stragiudiziale del licenziamento. Sempronio impugnava la decisione del giudice di prime cure, sostenendo l’illegittimità della stessa, specie nella parte in cui aveva ritenuto inammissibili le domande relative al licenziamento, considerando erroneamente operante il termine di decadenza, senza tener conto della mancata comunicazione al dipendente dei motivi del recesso datoriale. I giudici del gravame respingevano l’appello. La Corte d’Appello di Roma richiamava consolidato principio della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale “La novellazione dell'art. 2, comma 2, della l. n. 604 del 1966 per opera dell'art. 1, comma 37, della l. n. 92 del 2012, si è limitata a rimuovere l'anomalia della possibilità di intimare un licenziamento scritto immotivato, introducendo la contestualità dei motivi, ma non ha mutato la funzione della motivazione, che resta quella di consentire al lavoratore di comprendere, nei termini essenziali, le ragioni del recesso; ne consegue che nella comunicazione del licenziamento il datore di lavoro ha l'onere di specificarne i motivi, ma non è tenuto, neppure dopo la suddetta modifica legislativa, a esporre in modo analitico tutti gli elementi di fatto e di diritto alla base del provvedimento”. Nella vicenda esaminata, il licenziamento di Sempronio risultava giustificato con una ragione oggettiva, dichiaratamente integrata dall’esigenza di ridurre il personale.

AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'